Neurodivergenza nell’adulto: come riconoscere autismo e ADHD

Sempre più spesso, alcuni adulti e giovani adulti si trovano a chiedersi: “E se fossi neurodivergente? E se avessi l’autismo, l’ADHD, o forse entrambi?”

Questi dubbi nascono non solo da una riflessione sulle proprie esperienze di vita e sulle difficoltà incontrare quotidianamente, ma sono anche stimolati dal crescente dibattito pubblico e dall’aumento di reel, video e post sui social network, che portano maggiore attenzione al tema della neurodivergenza. Se in parte questo fenomeno ha il merito di favorire consapevolezza e contribuire alla riduzione dello stigma, dall’altro può generare confusione, auto-diagnosi frettolose o dubbi, che richiedono una valutazione clinica competente per essere fugati.

La neurodivergenza non è un disturbo: è una variazione, ma una “divergenza” del funzionamento della mente che può influenzare attenzione, processi cognitivi, regolazione emotiva, percezione sensoriale e modalità di interazione e relazione sociale. 

Alcune persone con ADHD riportano di sentirsi “sempre un passo indietro”, incapaci di focalizzarsi sui compiti o di organizzarsi, di mancare le scadenze e sperimentare difficoltà nelle relazioni, con un senso di frustrazione che li accompagna quotidianamente.

Le persone con funzionamento autistico raccontano, invece, di vivere una sensibilità sensoriale intensa, di sentirsi spesso “in una bolla”, nonché di avere difficoltà nel comprendere le comuni regole e convenzioni sociali e/o di sperimentare la necessità di routine rigide per sentirsi sicuri. 

Altre persone ancora presentano caratteristiche riconducibili ad entrambe le condizioni, creando un quadro complesso e, a volte, di difficile gestione rispetto alle sfide poste dalla quotidianità.

Il percorso per chiarire questi dubbi inizia spesso con l’osservazione delle proprie esperienze e schemi comportamentali. Per esempio, ci si può render conto di aver sempre avuto bisogno di liste e routine per gestire la vita quotidiana, di sentirsi sopraffatti da rumori o luci intense, di avere una importante selettività alimentare, difficoltà relazionali o di avere interessi molto focalizzati e specifici, a volte percepiti come “ossessivi” dagli altri. Allo stesso modo, l’aver sempre avuto difficoltà nell’attenzione, impulsività o disorganizzazione cronica può far sorgere il sospetto di essere in presenza di un quadro di ADHD.

Pensate al cervello come ad un’orchestra: la maggior parte dei musicisti segue lo spartito in modo prevedibile, mentre alcuni strumenti suonano con ritmi o tonalità diverse. Non è sbagliato, semplicemente il ritmo è diverso. Questi “ritmi alternativi” possono essere fonte di creatività straordinaria, intuizioni profonde, ma anche di frustrazione quando l’ambiente non è allineato con le proprie modalità di funzionamento.

La diagnosi e il supporto da parte di un terapeuta sono fondamentali in questo percorso: uno psicologo esperto può – attraverso il colloquio clinico, test psicometrici validati e osservazioni comportamentali – chiarire dubbi, porre una diagnosi e orientare verso una comprensione accurata di sé. Questo processo non serve solo a ottenere un’etichetta diagnostica, ma a comprendere meglio il proprio funzionamento per costruire strumenti concreti per vivere meglio, gestire le sfide quotidiane e valorizzare punti di forza spesso trascurati.

Ma perché ricevere una diagnosi è un atto potente? 

Ad esempio, una persona che scopre di rientrare nello spettro dell’autismo può in questo modo arrivare alla comprensione che le sue difficoltà relazionali derivano non da un personale “difetto”, ma da un modo di vivere le relazioni con gli altri diverso. A partire da questa consapevolezza, può creare strategie per gestire meglio le interazioni, comunicare bisogni in modo chiaro e costruire relazioni più soddisfacenti. Chi scopre di avere l’ADHD, invece, può apprendere tecniche per organizzare tempo e priorità, gestire l’impulsività e ridurre l ’ansia, trovando un equilibrio tra il proprio funzionamento e, ad esempio, le richieste sul lavoro.

Spesso ricevere una diagnosi porta con sé un senso di sollievo: ciò che prima sembrava “sbagliato” o “incompreso dal resto del mondo” diventa chiaro; può emergere, però, anche una certa quota di ansia data dallo stigma sociale o un senso di rifiuto rispetto al proprio funzionamento: in questo caso, la terapia fornisce uno spazio sicuro per affrontare queste paure, imparare come aprirsi al mondo in modo sicuro e lavorare sull’accettazione di sé. 

L’obiettivo del percorso, perciò, non si riduce a “dare un nome” a certe difficoltà, ma si amplia all’aumentare la consapevolezza di sé e, con la costruzione dei giusti strumenti, alla possibilità di vivere una vita più coerente con i propri ritmi, valori e obiettivi.

La diagnosi, infatti, diventa uno strumento per comprendere meglio se stessi, ridurre la sofferenza derivante da interpretazioni distorte (“Sono pigro” – “Sono sbagliato”) e sviluppare strategie pratiche di gestione quotidiana.